Per i paradossi della vita, il mio viaggio nei boschi italiani è iniziato in un posto dove non c'è nemmeno un albero. Era febbraio quando sono atterrato all'aeroporto di Longyearbyen, sull'isola principale delle Svalbard, l'avamposto più settentrionale della civiltà umana.
Terra di miniere, ricerca scientifica, renne, foche e orsi. Sono sceso dall'aereo e ho pensato: ma questa è la Luna. E subito dopo: che ci faccio qui? Era febbraio, l'alba artica, le prime ore di luce dopo il lunghissimo inverno, la temperatura esterna era un confortevole -25°: l'aereo ha sfarinato la neve sulla pista, erano le 11 del mattino e mancava un'ora al tramonto. Per gli stessi paradossi di cui sopra, l'esperienza più gelida della mia vita si stava svolgendo nel punto della Terra che si sta riscaldando più velocemente. Il global warming era tema e sottotesto di ogni conversazione, come il traffico a Roma: che si parlasse di scuole, dei cimiteri, dei trasporti, dei russi, della birra locale o dei cetacei, si finiva sempre lì, il mondo di prima e il mondo oggi. Mi raccontarono che fino a vent'anni fa si salutava con solennità e grandi bevute l'ultima nave, a novembre, perché non ne avrebbero viste più fino alla primavera, mentre oggi l'arcipelago è navigabile tutto l'anno. Le costruzioni stesse sono a rischio, perché il permafrost, principio e logica dell'ingegneria artica, si sta sciogliendo. Ho visto gli orsi cacciare con difficoltà sul pack sempre più fragile. Ho visitato depositi permanenti dell'agricoltura (Il Global Seed Vault) e della conoscenza (l'Arctic World Archive) umane. Arche di Noè per prepararsi all'apocalisse, nelle viscere delle vecchie miniere di carbone. Era il posto più freddo della mia vita ma non era abbastanza freddo. Le percezioni ci portano spesso fuori strada.
Sono tornato in Italia, ho consegnato quel reportage e poi ho iniziato a pensare. Da giornalista (e da essere umano), credo che ogni storia sia anche una storia di cambiamento climatico. La crisi ecologica tocca abitudini, comportamenti, aspettative, progetti. Cercavo una storia italiana per mettere in prospettiva le sensazioni del freddo-non-abbastanza-freddo alle Svalbard e ho trovato un mondo: i boschi italiani, un terzo del paese di cui quasi nessuno (tranne chi vi lavora) si occupa, se non per programmare una gita. La crisi climatica ha bisogno di prossimità e rilevanza, capirai che ti riguarda solo quando vedrai come colpisce qualcosa che ti appartiene, e in natura non c'è niente di più personale del nostro rapporto con i boschi e gli alberi. Perché ci sono i boschi, ma poi c'è sempre un bosco, il tuo. C'era stata da poco la tempesta Vaia, ci aveva ricordato che le foreste sono nostre, sono fragili e non sono eterne, ma nel tempo, un tempo preoccupante. Ho iniziato a studiare, a visitarle, a parlare con le persone che le vivono, le conoscono, ci lavorano, ho notato che parlano di «Cambiamento», con la C maiuscola ben pronunciata, senza nemmeno aggiungere climatico. Qualcosa che è già qui.
Da quell'esperienza è nato Italian Wood, un libro che ho pubblicato per Mondadori e che è uscito a settembre 2020. È stato un tassello del viaggio, un sentiero che mi ha portato a un sentiero più grande. Il bosco è una rete di relazioni, tra alberi, funghi e animali, ma anche tra gli esseri umani.
Avevo già incontrato Compagnie delle Foreste, Paolo Mori è stata una delle voci che hanno guidato il racconto di Italian Wood, poi ho conosciuto Luigi Torreggiani, che mi ha permesso di raccontarlo nei suoi incontri per la libreria online Ecoalleco. Le conversazioni che sono venute dopo sono state eliofile, hanno cercato e portato luce. Ci siamo accorti che - da prospettive diverse - il bosco e le sue storie hanno bisogno di strade, ponti, pertugi, per tornare al centro della società, per essere visibili e visti. È necessario parlare delle foreste, un mondo intero dentro il nostro paese, delle persone che le vivono, ne se occupano, le gestiscono, di quello che vedono, sanno, temono, e così è nato Ecotoni, il podcast di Compagnia delle foreste con la voce di Luigi e la mia. È un altro pezzo del mio viaggio, con i migliori compagni che potessi desiderare.
E poi ci sono i legami personali. Il bosco ci appartiene, ci nutre, è un luogo di devozione laica, una cattedrale nella quale si entra con rispetto e si rimane in silenzio. In ogni puntata di Ecotoni chiederemo ai nostri ospiti di raccontarci il loro bosco del cuore, di spedirci una breve cartolina sentimentale, questa è la mia ed è - come spesso accade - una storia complicata.
Innanzitutto, sono cresciuto in città e quindi ho avuto un'educazione adulta al bosco, perché da bambino ne ho visti pochi, la mia è stata una famiglia di città, campagna e costa, la domenica andavo allo stadio, ero iscritto al WWF e non ho fatto gli scout. Ogni foresta che ho visitato poi è stata una cura per la spropositata assunzione di cemento e smog che è stata la mia adolescenza urbana a Napoli, la città dove sono nato un po' di anni fa. Ogni visione, dalla Valle delle Ferriere in Costiera amalfitana alle meraviglie del Parco Naturale Puez Odles, in Alto Adige, mi ha disintossicato un po' alla volta.
E poi è arrivato il bosco dove ho sentito di imparare il bosco, il primo dove ho avuto una sensazione di appartenenza, non mi sono sentito più solo uno che va nella natura ma uno che è parte della natura. È la Riserva di Coppo del Principe, una delle cinque foreste vetuste del Parco Nazionale d'Abruzzo, regno di faggi, aceri, cervi, orsi, dove si cammina tra alberi che potrebbero aver incrociato Michelangelo o Cristoforo Colombo. La verità che siamo chiamati ad accettare, da adulti, è quanto ogni relazione sia asimmetrica, fondata su uno squilibrio. Vale anche per il legame tra noi e le foreste. Quella riserva non aveva bisogno di me per essere tale, ero io a misurarla sulla mia vita, le mie mancanze, le epoche umane. Eppure, noi ci siamo, io in quel bosco c'ero, ero presente, col mio fiato condensato, le scarpe, il rispetto e l'ansia di fare bene.
E quello è il fondamento della relazione: noi ci siamo e finché ci saremo abbiamo il dovere di cercare una relazione equilibrata, sana, rispettosa, fondata sul segreto di ogni amore che funziona: il realismo sui bisogni e i desideri che coltiviamo nel nostro cuore.